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Viaggi, è questa la mia vera passione...

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view post Posted on 13/11/2008, 12:25
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called for travelling

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CITAZIONE (Altrotiroaltroregalo @ 13/11/2008, 12:22)
CITAZIONE (bosforo65 @ 13/11/2008, 09:54)
vogliamo poi vedere anche le tue foto di viaggio, eh...

Volentieri :)
Io ad Agosto sono stata in Scozia...

benone, allora noi si aspetta...
 
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view post Posted on 23/11/2008, 10:44

NYPD

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CITAZIONE (cisio @ 11/11/2008, 09:46)
Come suggerito da Franz, ecco a voi qualche scorcio del mio paesello, cioè Bassano del Grappa, provincia di Vicenza.
Se volete farvi un giretto da queste parti, sono sicuro che vi piacerà ;)

Veduta del Ponte degli Alpini (detto Ponte Vecchio), dal Ponte Nuovo
image

Veduta dal Ponte Vecchio, appena fuori da Nardini :D
(IMG:http://picnic.ciao.com/it/40721.jpg)

Sede del Comune, in Piazza Libertà
(IMG:http://www.magicoveneto.it/Bassano/Bassano/Piazze-101.jpg)

Piazza Libertà by night
(IMG:http://farm1.static.flickr.com/35/105461128_a5c4dafa72.jpg)

Entrata della grapperia Nardini sul Ponte Vecchio
(IMG:http://farm1.static.flickr.com/190/440193909_725e51787d.jpg)

Sede Nardini, fatta dall'architetto Fuksas
(IMG:http://www.darc.beniculturali.it/fuksas/im...zio-marcato.jpg)

Bassano è una città piccola di 42mila abitanti, in 3 giorni si può visitare tutta nelle sue parti più importanti, altrimenti nei dintorni ci sono altre cittadine molto belle da vedere come Asolo, Marostica etc. etc.

Per quanto riguarda la vita notturna, c'è di che divertirsi, fidatevi. ;)

Cisio, sono imbiancati i monti inorno a Bassano?
 
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cisio
view post Posted on 23/11/2008, 13:53




Non ancora.
Ieri sul Monte Grappa c'è stata un lievissima spruzzatina di neve, ma si è sciolta quasi subito.
Nei prossimi giorni penso che ne arrivi di più, anche qua in pianura.
 
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view post Posted on 23/11/2008, 15:26

NYPD

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CITAZIONE (cisio @ 23/11/2008, 13:53)
Non ancora.
Ieri sul Monte Grappa c'è stata un lievissima spruzzatina di neve, ma si è sciolta quasi subito.
Nei prossimi giorni penso che ne arrivi di più, anche qua in pianura.

Prepara e ciaspole che vengo a fare un giro da quelle parti. Magari porto anche la Renna...
 
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cisio
view post Posted on 24/11/2008, 09:10




Ecco come si presenta l'esterno di casa mia, foto scattata 5 minuti fa
imageimage
 
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view post Posted on 24/11/2008, 09:22

NYPD

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CITAZIONE (cisio @ 24/11/2008, 09:10)
Ecco come si presenta l'esterno di casa mia, foto scattata 5 minuti fa
imageimage

Azzo, arrivo immediatamente!
 
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view post Posted on 24/11/2008, 20:58

NYPD

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Situazione neve?
 
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cisio
view post Posted on 25/11/2008, 08:44




Qui da me tutta sciolta, ma basta salire di un centinaio di metri per trovarne ancora molta :B):
 
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view post Posted on 25/11/2008, 20:06

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CITAZIONE (cisio @ 25/11/2008, 08:44)
Qui da me tutta sciolta, ma basta salire di un centinaio di metri per trovarne ancora molta :B):

Spettacolo! Qui da noi, oggi, ha fatto qualche fiocchetto.... Gli Appennini non sono visibili.
 
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julius6
view post Posted on 6/12/2008, 16:07




Carissimi,
oggi vi trasmetto la mia più grande memoria di viaggio: l'India.
Questo racconto è stato pubblicato nel giornale ufficiale di Avventure nel mondo.
Questo viaggio lo feci nel 99 e durò un mese.
Fu per me il "viaggio di tutti i viaggi", "l'esperienza di tutte le esperienze", chiamiamola come vogliamo.
Comunque, una di quelle esperienze che ti cambia la vita per sempre.
No ho messo foto perchè io faccio pochissime foto in viaggio.
Mi piace soprattutto fare memoria delle mie esperienze, sensazioni e memorie.
Ve lo dedico, di cuore, da virtussino a virtussini... :)




24/12/99 INDIA 1999

Quest’anno, dunque, India del Nord.
Contravvenendo ad una delle mie sciocche certezze (“ Io non andrò mai in India “) e convinto dalle gentili insistenze del capogruppo dello scorso anno in Messico, mi sono presentato a Roma quasi rapato a pelle e con un abbigliamento tipo marine della base di Guantanamo, evidenziando così lo spirito col quale intendevo affrontare le difficoltà del mese che mi si parava davanti e scatenando l’ilarità generale; eravamo in dieci, otto reduci dal Messico (anche le sorelle milanesi, sempre più alte, più magre e più temprate) e due nuovi innesti: Fausto, un ragazzo di Varese tosto e simpatico, anche se parlava solo se interrogato, grande fotografo professionale, e Gabriele, amico del capogruppo Fabrizio, al primo viaggio con Avventure nel Mondo.
Però, appena sbarcato a Nuova Delhi dopo un breve scalo ad Amman, in Giordania, ho capito che per non farsi travolgere dal tutto ci sarebbe stato da rimboccarsi le maniche; un conto è pensare dall’Italia, nel silenzio e nella frescura della tua cameretta, cosa possa essere l’India e un conto è vederlo e saper di dovere stare lì dentro un mese!
Noi pensiamo che qui in Italia in estate sia caldo e magari anche umido?
Beh, prova l’India in agosto, che pure non è il mese più caldo, poi ne riparliamo!
Usciti dall’aeroporto, mentre aspettavamo il pulmino che ci avrebbe accompagnato per una ventina di giorni, pur non
facendo assolutamente nulla se non respirare, mi sono ritrovato come per miracolo, in dieci minuti, fradicio di sudore anche per colpa di un inquinamento che ti fa bruciare gli occhi.
Vacche, montoni, capre, cani, scimmie, topi, scoiattoli, animali, tori vanno raminghi cercando qualcosa da mangiare tra i rifiuti, magari un bel cartone, naturalmente scagazzando dappertutto e dormendo in mezzo alla strada; del resto, anche gli uomini, se gli va di fare un pisolino, si sdraiano per terra e dormono, magari stesi di faccia, avendo come casa il mondo.
I camion, le auto, le biciclette, i “risciò” azionati a pedali da poveri ciclisti per due lire, i “tuc-tuc” (infernali ape-car senza porte, gialli e neri come cubiche vespe dal velleitario frastuono, producenti un fumo nero che si deposita anche sul pensiero) uomini a piedi, tutti circolano a sinistra, retaggio della dominazione inglese; ma la vera regola è che non ci sono regole, tranne quella che la cosa più grossa che si muove ha sempre ragione per cui se un camion va magari anche contromano l’auto deve rifugiarsi fuori strada e così a discendere, per finire all’uomo che tutti puntano perché suppongono che si sposti, così che sono vietate incertezze fatali. L’altra regola non scritta è che è obbligatorio per tutti sempre suonare per avvertire chi ti precede che stai arrivando, anche se vai in bicicletta (molti camion sul retro portano la scritta: ”Horn, please”) e se non vuole una nuova riga tra i capelli stia accorto.
Immagina il caos e il frastuono!
Ovunque ti giri, storpi, monchi, bambini, vecchi, nullatenenti e anche lebbrosi ti chiedono la carità di una rupia (44 lire) e tu non gliela dai (e così ti senti in colpa), mentre improvvisati venditori cercano di venderti ogni possibile prodotto tipo cartoline, serpenti finti, scacchiere, topi a pompetta, giocattoli strani, accendini, cappelli, strumenti musicali, foulard, spezie, thè, e quant’altro si trovano in mano, magari impostando loro stessi l’intera trattativa, oppure cercano di portarti in qualche negozio per avere la percentuale sui tuoi acquisti, oppure semplicemente ti affiancano parlando di continuo anche se tu non li guardi nemmeno e poi vogliono soldi perché dicono di averti fatto da guida, oppure semplicemente ti bloccano e con un bel sorriso ti chiedono: ”Where do you come from?”-“Italy”.-“Ah, Italy…” e se ne vanno, appagati. Tutto questo dovunque e per sempre.
Così, durante il primo giorno a Nuova Delhi, bagnato fradicio di sudore, la testa che mi girava, la prospettiva del lungo mese davanti, ero sul punto di convincermi che il suicidio fosse un’onorevole via d’uscita ad una tale situazione; per fortuna, la sera siamo andati a cena in un posto fatiscente della “Old Delhi”, dove, in un’atmosfera incredibile fatta di miseria, sporcizia, uomini che dormivano sopra ad una strettissima aiuola spartitraffico, topi, cose rotte, di corpi maleodoranti e a brandelli che in qualche modo si rotolavano vicendevolmente addosso suonando, tra luci sulfuree tipo bolgia infernale, a bordo di un risciò a pedali che procedeva a fatica tra la folla e su un terreno sconnesso, in mezzo a vacche che cagavano indifferenti e a mille odori nauseabondi, ho capito di aver completamente dimenticato in mio nome: da lì in poi tutto è andato per il meglio.
A Delhi abbiamo visto il Red Fort (forte rosso), bello all’esterno, meno dentro, un paio di moschee molto belle (peccato siano gestite dagli odiosi musulmani, abilissimi col loro eccessivo integralismo a creare quasi un clima di latente intimidazione, così che non si vede l’ora di uscire per andare a raccattare i sandali, sperando che il guardiano dallo sguardo poco rassicurante che sta alla porta non li abbia fatti sparire e che non ci sia poi da discutere per la mancia, ma per questo eravamo in dieci, e italiani, belli affiatati a fare da scaria-barile: ”Paga lui, no lui, forse lui, magari l’ultimo”, finché chi si è visto si è visto…), la tomba di Ghandi, il “Mahatma” (grande anima) e uno strano tempio dedicato a tutte le religioni, dalla forma di un’astronave marziana, dove siamo giunti dopo una fila interminabile sotto un sole stordente e un servizio d’ordine implacabile; dentro si scopre che non c’è nulla tranne alcune file di panche, quindi, dopo aver visto che non succede niente, si cede il posto alle moltitudini che sopraggiungono, contenti dell’esperienza.
Usciti da Delhi, dopo aver visto di mattina, nei campi, decine d’indiani che in ordinata compagnia, disposti secondo
misteriose geometrie, tutti insieme defecano (chissà come dev’essere recuperare la propria postazione il giorno seguente…) arriviamo ad Amritsar, nel Punjab, quasi ai confini col Pakistan. In pulmino si procede con lentezza ed è consigliabile non sedere nei primi posti per vedere le manovre che compie un pur bravo autista per evitare all’ultimo istante gli ostacoli, usufruendo entrambi i mezzi che si incrociano il più possibile della miglior fascia centrale della strada; ogni tanto, un camion che non ce l’ha fatta si para rovesciato obliquamente, con l’autista sdraiato nell’ombra che aspetta sereno, magari dormendo, i soccorsi.
Ad Amritsar dicevo, in questo posto sperduto fuori da molte rotte turistiche, per la cui descrizione vedi “old Delhi”, ho visto una delle cose più stupefacenti di tutta la mia vita: il “Golden Temple”, roccaforte dei Sikh, dove nel ‘500 il “guru” Nanak diffuse il suo verbo di tolleranza verso l’uomo e di rottura nei confronti del sistema delle caste e delle molteplici divinità induiste mitologiche. E’ un edificio di marmo bianco, quadrato, circa 200 metri ogni lato, porticato, con all’interno un lago pieno di pescioni clamorosi (dove i sihk s’immergono per lavarsi e per purificarsi) che fa da cornice ad un edificio arabescato tutto d’oro, dove i fedeli si avvicendano ad ogni ora del giorno e della notte per cantare le loro melense e strazianti cantilene.
Essendo il luogo stato oggetto d’aspre battaglie con gli eserciti centrali, tuttora i sikh s’impongono di rimanere in armi, perciò anche all’estero debbono portare il pugnale o almeno una spilla tra i capelli e qui esibiscono un corpo volontario di guardie armate con spade e lance, mentre una barba a punta tipo matusalemme finisce di incorniciare il viso compresso sotto variopinti turbanti, mentre sgargianti vestiti fanno la gioia di qualsiasi fotografo.
Si respira veramente un’aria di grande accoglienza e serenità e poiché l’ostello del tempio dove pensavamo di passare la notte non c’era parso umanamente frequentabile abbiamo steso i nostri sacchi lenzuolo (le stuoie non le avevamo) sul freddo marmo, sotto le bianche stelle; due guardie sikh, probabilmente pensando che volessimo condividere integralmente l’esperienza dei loro pellegrini, si sono amorevolmente poste ai due estremi del nostro improvvisato accampamento, menando terribili fendenti a quelli che si avvicinavano temendo che ci disturbassero.
Tutto procedeva per il meglio, a parte le cantilene incessanti, se non che alle 3 e 30 del mattino iniziano le pulizie e una schiera impietosa d’adepti avanza a tappeto gettando a terra fragorose secchiate d’acqua gelida, continuamente rifornite da masnade indefesse come può ispirare soltanto il fervore religioso, incuranti dell’odioso dettaglio di chi c’è o non c’è; così, pur levandomi in piedi veloce come un serpente e pur salvando zainetto e sacco lenzuolo, non ho potuto evitare una poderosa e scrosciante abluzione ai piedi assolutamente indesiderata che mi ha fatto affermare, istantaneamente, candidamente, ma fermamente e con voce tonante: ”Per me la religione dei sikh è una religione di merda !”
Appurato che le guardie sikh non conoscono l’italiano, ammetto che quest’affermazione, pur del tutto appropriata alle circostanze, sia abbastanza sconveniente da scandire nel loro sacro tempio; ma trovo anche ingiustificati i timori espressi da tutto il gruppo da qui in avanti di misteriose ritorsioni provenienti dal cielo.
Scendendo lungo i confini col Pakistan siamo giunti a Bikaner, una graziosa cittadina nel deserto dove abbiamo assistito ad una sgargiante sfilata di donne in costume intorno all’onnipresente forte; nei pressi di Bikaner abbiamo anche visitato il famigerato “Tempio dei topi”, dove le graziose bestiole sono ospitate a frotte, come pulcini in un recinto, e c’è chi provvede a rifocillarli con un disgustoso pastone. Si ritiene, infatti, che le migliaia di topi che popolano il tempio di Karni Mata a Desnok siano le future incarnazioni di mistici e santoni; all’interno del tempio ci sono parecchie abitazioni e i bambini giocano a terra felici, facendosi largo in questo tappeto grigio: naturalmente è obbligatorio entrare scalzi!
Più giù troviamo Jaisalmer, per me la più bella città del Rajasthan, ai margini del deserto del Thar; il luogo costituisce un avamposto dell’esercito contro i bellicosi vicini e il forte cinquecentesco di colore giallo sabbia presenta ancora i segni dei bombardamenti effettuati nel corso di una guerra indo-pakistana dei primi anni settanta mentre l’interno è un dedalo di stradine caratteristiche ma molto sporche. Jaisalmer fu la sede di uno dei clan guerrieri “rajput” più potenti e orgogliosi, tanto che quando per la città assediata si profilava la disfatta era decretato il “jauhar”, in pratica il sacrificio collettivo degli abitanti; i mercanti divennero molto potenti e qui si può ammirare la più vasta concentrazione di magnifiche “haveli” (dimore) in legno e arenaria gialla.
Da qui siamo partiti per un breve trekking nel deserto a dorso do cammello; la notte, accampati in circolo sotto una duna di tipo sahariano, galleggiando sulla fresca brezza non ho potuto chiudere occhio, distratto da miriadi di piccoli e misteriosi rumori e rapito dalla bellezza di un cielo mutevole.
Trovandosi al mattino sulle strade indiane è sempre molto curioso lo spettacolo dei bambini che vanno a scuola; alcuni di loro, impettiti, sfoggiano vesti esageratamente pulite, camicie inappuntabili e cravatte splendenti, quasi a scherno dell’ambiente che li circonda, mentre carovane di mucche in fila indiana seguono o intersecano la strada secondo casuali migrazioni.
A Jodhpur, la”città azzurra”, di notevole c’è il forte, ben conservato, su una collina da cui si gode un’indimenticabile vista sulla città sottostante mentre il vento reca con sé i rumori e le voci dei passanti; da qui si notano molte case azzurre che sono quelle dei “bramini” (la casta più elevata) ma, secondo me, devono avere ispirato una moda a giudicare da quante ce n’è. Un bel mercato circolare, molto folkloristico e variopinto, si stende attorno ad una torre con l’orologio. Terrificante la visita alla città vecchia, ma anche affascinante, piena com’è di tutto quello che si spera di non vedere mai andando in giro; spesso gli uomini in queste stradine strette sputano con rumorosa voluttà, oppure sguainato l’apposito arnese fanno pipì anche alla presenza di donne per completare la stalla a cielo aperto che hanno già impostato gli animali.
Qui un gentilissimo ragazzo che ci ha accompagnato nella visita della città ci ha mostrato la foto della sua ragazza, (carina!); sono due anni che stanno insieme e tra un altro paio prevedono di sposarsi: cosa c’è di strano? Le rispettive famiglie non li hanno ancora presentati! Ma lui non era per niente preoccupato, lo trovava normale; per loro il matrimonio è essenzialmente un patto sociale e d’affari, l’amore se viene bene ma non è indispensabile, mentre noi discendenti della tradizione stilnovista e dell’amor cortese non possiamo concepire l’unione tra due persone disgiunto dall’aspetto emotivo e quando questo vacilla cade l’intero castello. La nostra idea del matrimonio può essere certamente più appagante, ma la loro è altrettanto indubbiamente più solida.
Udaipur è la città più vivibile del Rajasthan, si trovano le più belle miniature e il lago sul quale si stende la rende molto romantica; qui, infatti, abbiamo gustato la cena più suggestiva di tutto il viaggio, sul tetto di un locale prospiciente e dominante il catino d’acqua racchiuso tra i monti, dove spicca l’abbagliante Lake Palace (dove è stato girato “Octopussy”, un vecchio James Bond): davvero un ricordo indelebile!
Ad Udaipur abbiamo pure assistito all’eclissi quasi totale di sole, usufruendo dello schermo delle nuvole.
Ad Ajmer invece ho vissuto un’esperienza decisamente meno piacevole: la visita a Dargah, un luogo sacro per i musulmani perché tomba di un loro santo. Scaricati dal pulmino fuori del paese, dopo una breve disputa con i conduttori, ci siamo imbarcati su vecchi calessi dagli sfiatati ronzini. Miseria, caos, cielo plumbeo, gran caldo.
Scesi dai calessi, circondati da bambini pungenti come zanzare e dallo sguardo degli indigeni nello stesso tempo attonito e indagatore, ci siamo fatti largo fino ai gradini di questo posto. Il nervosismo in tutti era già alto. Avendo io osato calcare coi sandali quel marmo, certi mustafà del cavolo si sono precipitati a scaraventarmi giù; poi ancora spinte, grida, gente che ti tira, finché si capisce che non puoi entrare perché hai i pantaloncini troppo corti (ma alcuni li fanno passare), così che Fausto ed io ci accoccoliamo dove ci intimano, nella attesa che qualcuno esca e ci passi il suo pezzo di stoffa per coprirci. Caos, caldo orrido, rumori d’ogni tipo, davanti ci passa di tutto, attorno a noi mille risatine sceme e sguardi per lo più impregnati di silenzioso disprezzo, da me ricambiati di tutto cuore.
L’interno è una specie di mercato, ci sono negozi di tutti i tipi e due enormi paioli per le offerte (col cavolo ..!), sporcizia in giro, due grandi aree per la preghiera, una per gli uomini e una per le donne. Tutti ci guardano di traverso, come per dire: ”Ma tu qui che cosa vuoi?”
Poi dovresti passare per un cunicolo per arrivare alla tomba di sto santo dove spargere quei petali che dovresti avere acquistato ai negozietti; davanti alla tomba c’è un tipo che ti prende la testa e te la abbassa imponendoti di omaggiare la salma, il tutto in un fetore di sudore stagnante tipo trincea cambogiana. Usciamo mentre arriva un tipo importante con una grossa macchina e la scorta, il caos è ai massimi, quasi non si passa, mentre il guardino dei sandali non si beve lo scarica-barile e con uno scagnozzo ci raggiunge: dobbiamo pagare. Riguadagnati con estrema fatica i calessi, facciamo il percorso a ritroso verso il pulmino, guardando occhi negli occhi una bambina che ci segue correndo attaccata ad una sbarra posta sul retro del nostro mezzo, per un paio di chilometri, chiedendo soldi con una straziante litania. Ho un grandissimo desiderio di sparire, di evadere da quella situazione assurda mentre la bambina, madida di sudore, desiste.
Così è normale che la sera, arrivati a Puskar, una tranquilla e affascinante cittadina impregnata di mistica quiete, disposta tutta attorno ad un lago circolare sacro agli indù, essendo per di più ospiti di un alberghetto recintato tra il verde, proprio sul lago, che è un gioiello di stile e di europeizzante senso d’esclusività, alcuni di noi non vorrebbero più proseguire, vorrebbero fermarsi a guardare nel tramonto gruppi splendidamente monocromatici di pellegrini mentre discendono i vari “ghat” (scalinate) per purificarsi, oppure i reduci occidentali dei figli dei fiori immersi in quell’acquario senza tempo, con i loro jeans stracciati anni settanta, le loro collane pacifiste e il loro “fumo”, oppure i “sadhu”, delle specie di santoni che abbandonano la famiglia e la vita materiale girovagando solitari in un’inesausta crescita spirituale, arrivando a tali poteri, derivanti da un’incredibile autodisciplina mentale, da poter vivere anche senza mangiare o senza bere o senza respirare per giorni, oppure da poter essere sepolti e poi riesumati dopo mesi ancora vivi!
Ma non si può, bisogna proseguire verso Jaipur, la “città rosa”, il luogo più caotico che ho visto in Rajasthan, dove assistiamo ad una sfilata interminabile di elefanti, tutti dipinti e imbellettati come maschere di carnevale (ma quando li incontriamo nella ripida, lunga e stretta salita al forte, dobbiamo zigzagare repentinamente per evitare i compatti confetti di cacca che si sganciano dalle simpatiche e felpate bestiole e che si conficcano terra con un tonfo sordo).
Entriamo nell’Uttar Pradesh e visitiamo Fatehpur Sikri, un villaggio-moschea abbandonato in cima ad un colle, parzialmente in rovina, dove il musulmano Akbar tentò nel ‘500 una fusione con gli induisti, i giainisti (veri filosofi che hanno costruito bellissimi e pulitissimi templi, che perseguono il bene e l’onestà e che ho imparato ad apprezzare tantissimo), i parsi e i gesuiti. E’ un bel posto, dove lunghe stuoie permettono di salvare i piedi dalla pietra arroventata dal sole e dove l’India è presente fortissimamente con tutti quegli aspetti umani e materiali che ho già descritto, tanto da farmi affermare un’altra frase assunta come emblema da tutto il gruppo e che si può considerare anche un’efficace sintesi di tutto il viaggio: ”Stiamo camminando nell’assurdo”.
Dopo una sconvolgente apparizione per strada di poveri e sciupati orsi, ammaestrati come scimmiette, governati tramite una corda infilata nel naso, arriviamo ad Agra dove ammiriamo il meraviglioso Taj Mahal, un mausoleo creato da un imperatore Mogul nel ‘600 in onore di una sua moglie morta, che è diventato il simbolo turistico dell’India ed è utilizzato come logo anche dalla rete televisiva mondiale CNN; il monumento, che sorge su un rilievo dominante un maestoso fiume, circondato da quattro minareti divergenti, ispira un senso di mirabile armonia mentre il marmo bianco che lo costituisce nel corso della giornata cambia varie volte la sfumatura del colore. Intorno ad Agra visitiamo anche il tempio degli “are krisna” (si scrive così?) zeppo di guardie armate a causa della frizione esistente coi soliti musulmani; seduti a terra, scalzi, sotto il tetto del tempio e le vorticose pale, ammiriamo bellissimi affreschi che raffigurano la vita di questo personaggio divinizzato perché riconosciuto come la reincarnazione di Visnù (?). Comincio ad invidiare molto quelli di noi che mostrano di raccapezzarsi in questo guazzabuglio di divinità!
Partiamo per Gwalior, una cittadina meravigliosa con portentose raffigurazioni di Buddha incise nella roccia della montagna che sorregge il bellissimo forte, ma arriviamo che piove e quasi all’imbrunire perché abbiamo perso più di cinque ore in uno spaventoso ingorgo di camion.
E’ un momento elettrizzante quando, bloccati su un ponte e immersi nel solito caldo torrido, per ingannare la fame, la sete e l’insorgente senso di frustrazione cominciamo a cantare; in un attimo, l’onnipresente gruppetto di silenziosi osservatori si moltiplica, sono decine che si aggrappano al pulmino per ascoltarci in uno sbigottito silenzio, come noi potremmo guardare dentro un’astronave di cantanti marziani. Esaltati da un tale sempre crescente successo e infine travolti dall’adrenalina per quella situazione dall’esito incerto, gli spariamo in faccia con tutti i decibel che abbiamo l’inno d’Italia perché conosciamo tutti le parole.
In seguito, mentre la situazione gradatamente si normalizza, inizia a piovere a dirotto, anche dentro al pulmino, ma ormai siamo euforici come una banda d’irlandesi alcolizzati al sabato sera; la strada s’allaga sempre più ma gli indiani sotto la pioggia torrenziale non si scompongono, nessuno si agita, nessuno impreca, nessuno manifesta il benché minimo senso d’insofferenza (come non immaginare quel che succederebbe in un’analoga situazione in Italia?). Infine “Topo Gigio”, il nostro autista la cui espressone paciosa ma soprattutto le spettacolari orecchie a sventola ricordano appunto il famoso topo, risalita in qualche modo la coda, arriva in un punto dove ci sono due camion ribaltati e l’acqua sopra il ginocchio; scende a controllare “Max Gazè”, il capomacchina-meccanico-barista-guida-tuttofare, e sembra preoccupato mentre Topo Gigio non sa che fare. Di lì non si passa, ci sono grandi buche sott’acqua e si rischia di fare la fine degli altri due camion se anche, in un’ipotesi molto ottimistica, si riuscisse a passare in mezzo; intanto l’acqua comincia ad invadere il primo gradino interno al pullman: ”Ma chi ce l’ha fatto fare? Non ce la faremo mai, non torneremo mai in Italia..!”, arrivati d’un colpo all’opposto stato d’animo. Ma Topo Gigio non è Topo Gigio per niente, sembra svegliarsi improvvisamente da un incantesimo, sgasa, mette la marcia, il mondo sobbalza, batto la testa contro il soffitto del pullman, Topo Gigio in volo supera i due scogli driblandoli con un motoscafo impazzito, siamo fuori, Max Gazè come noi esulta e per la prima e unica volta lo vediamo sorridere felice, è evidente che ci credeva poco anche lui!
Il mattino dopo ci svegliamo ad Orchha, vicino a Jansi, un paesino di campagna incastonato in un complesso di palazzi e templi ben conservati il cui stile mi ricorda quello dei Khmer cambogiani, cosa alquanto strana perché io non sono mai stato in Cambogia.
Mentre la strada si va facendo sempre più difficoltosa, raggiungiamo Khajuraho dove si trova una serie di templi famosissima risalente all’epoca dei “Chandela” (circa mille anni dopo Cristo), esempi unici d’architettura indo-ariana; ancora più stupefacenti le grandi sculture e i fregi che ricoprono integralmente gli edifici, raffiguranti animali esistenti mescolati a quelli mitologici, divinità, guerrieri, musici e tantissime posizioni del Kamasutra, giacché quegli antichi artisti si proponevano d’offrire al popolo un’istruzione multilivello e spettacolare in grado di surrogare efficacemente la mancanza della televisione.
Qui incontriamo un tipo molto simpatico, mezzo indiano e mezzo napoletano, perché passa ogni anno sei mesi in India e gli altri sei in Italia facendo da interprete al padre, che è un famoso santone joga, (a proposito, costui sosteneva che questa disciplina è nata proprio in quel luogo); pur avendo preferito il nostro paese a tutta Europa, ”…perché da voi la gente è di gran lunga più calda e più simpatica”, non ci pensa neppure a trasferirsi definitivamente da noi, assicura che va bene così, un po’ di qua e un po’ di là, perché se è vero che in Italia la qualità della vita è un’altra è anche vero che, pur frequentando gente miliardaria, non è mai riuscito a ritrovare qui da noi lo stesso tipo di sorriso che fa parte dell’intima natura di un indiano, anche di quello che non ha neppure i soldi per un “ciapati” (una sorta di pane indiano, molto popolare ed economico, che secondo me è una delle cose più abominevoli nell’intera storia dell’alimentazione umana). Ho visto ciò di cui parla e so che ha ragione.
Dopo un viaggio sempre più massacrante arriviamo a Varanasi, l’antica Benares; questo è il luogo chiave per capire il senso più profondo di tante cose che in India fanno riflettere.
Iniziamo col visitare Saranath, il luogo dove Buddha predicò ai discepoli il suo messaggio della “via di mezzo”; lì sorge un edificio di 34 metri, chiamato “stupa”, che contiene preziose reliquie. Ma sono ormai giorni che ci stiamo preparando a ciò che sta per succedere. Seguendo un bramino amico di Avventure che ci conduce nel dedalo di viuzze molto sporche, piene di vacche e tori, dopo avere superato grandi cataste di legna, ci affacciamo sull’immenso Gange, che lì raggiunge quasi i 300 metri di larghezza; il clima si fa più pesante, il ghat è di un poetico squallore, con una mandria di grandi bisonti (?) neri immersi nell’acqua fino alle orecchie per rinfrescarsi.
Stiamo tutti quanti per scattare una foto quando una strana litania e poi grida rivolte a noi ci fanno desistere; sta passando un morto, avvolto in un giallo velo, portato a braccia su una barella appoggiata sulle spalle di quattro uomini, non si può fotografare. Appoggiano il morto a terra a pochi metri dai bisonti che pascolano nell’acqua indifferenti e se ne vanno. Con gli occhi bassi saliamo i gradini di una casa sul fiume, passiamo per un interno dove molti anziani sdraiati o seduti ci guardano a malapena, infine arriviamo all’aperto, sul tetto e ci dirigiamo verso la balaustra dove altri anziani, vedendoci arrivare, lentamente si spostano.
Guardiamo giù: sul Manikarnika ghat otto cadaveri stanno bruciando, avvolti in drappi colorati s’indovinano le membra, il fumo si leva in un silenzio irreale; qualcuno, che spesso è della famiglia, pensa a ravvivare il fuoco, a spostare i ceppi, finché la parte superiore del corpo è totalmente consunta poi, spostandolo con un forcone, arriva anche il momento del fagotto delle gambe. Un forte odore di carne bruciata ristagna sull’immenso fiume silenzioso. Di tanto in tanto una postazione viene liberata, ci vogliono tre ore perché bruci tutto, poi altri ceppi vengono posti a formare una nuova pira, arriva un’altra barella, una sagoma ci cade sopra, senza cerimonie.
Siamo dieci statue di sale, ho perso la cognizione del tempo.
La prima salma che abbiamo visto deporre vicino alla riva viene legata su una lastra di pietra, issata su una barca tipo grossa canoa e poi scaricata nel fiume, a pochi metri da dove qualcuno si sta lavando completamente immerso, da dove qualcun altro sta lavando le stoviglie. I bambini, le donne incinta, i bramini, i lebbrosi e quelli morti di vaiolo non possono essere bruciati.
Ce ne andiamo meccanicamente, visi come stracci, anime come vele consunte; muovendoci in cunicoli rivoltanti, avvolti dallo sterco scendiamo il ghat seguente dove spicca un tempio immerso per due terzi e un bambino fa il bagno nel fiume giocando con un grosso topo.
La sera ritorniamo nello stesso posto, siamo in sei a cena dal bramino, vale a dire uno appartenente alla casta umana più vicino a Dio; cominciamo col passare sotto diverse barelle funebri a causa delle strette viuzze (“Rama Rama satta iè!”= Rama l’ha detto: tutti dobbiamo morire!), ci fermiamo a pisciare contro un muro prima di salire le scale diroccate perché in casa il bagno non c’è, ci sono solo due ambienti: la cucina, che non vediamo, e una camera in pietra grezza con un armadio, un topolino e una stuoia dove ci si siede scalzi per mangiare oppure ci si sdraia per dormire. La cena è costituita da patate al forno (buone), ciapati (lasciamo perdere) e “dalh” (una brodaglia commestibile, quando si è affamati); la compagnia è buona ma ritorniamo non tardi driblando un grosso toro che nel buio non ci vuole fare passare e altri cortei funebri. A letto, per la prima volta in vita mia, mi battono i denti!
Il giorno dopo gita su una barca simile ad una canoa, sul Gange, all’alba: bellissimo veder gli indiani scendere i ghat a bagnarsi, con ampie vesti colorate, sereni, mentre magari a fianco sta bruciando una pira funebre. I barcaioli accendono piccole candele che, racchiuse in cestini di carta simili a quelli che avvolgono i profiterole, col bordo rialzato, scendono lentamente la corrente, come se fossero tanti piccoli lumini funebri; così, tanto per rallegrare l’atmosfera!
Bellissimo il quartiere vecchio di Benares, quasi non si cammina neppure per le minuscole stradine affollate; ovunque soldati armati a causa dei soliti “muslim”.
Alla fine, giunti di nuovo ai ghat crematori, il bramino ci spiega che il vero scopo della nostra vita è per ciascuno migliorare il proprio “Karma”: attraverso la mente, le mani e il cuore ci dobbiamo disporre continuamente alla ricerca del bene, del giusto; in questo modo potremo godere in futuro di reincarnazioni sempre più elevate fino a raggiungere il “nirvana”, uno stato metafisico di là dal tempo dove ci sarà concesso di non reincarnarci più avendo già superato tutte le prove (ma anche Cristo non ha detto più volte che l’uomo per entrare nel Regno dei Cieli dovrà rinascere molte volte e ritornare bambino? Magari quelli che noi siamo soliti considerare come metafore di purificazione lo sono meno di quanto appare…). Mentre noi costruiamo bellissimi sepolcri imbiancati e li riempiamo di fiori continuando a identificare la salma con il caro defunto, loro considerano il corpo inanimato come un inutile vestito smesso; mentre noi concepiamo la vita come una possibilità che casualmente ci è stata data una volta sola (anche coloro che sono cristiani) e dunque siamo tesi a produrre la miglior prestazione possibile per conseguire ciò che può darci potere, importanza, piacere, (specialmente quelli che si definiscono atei), rischiando poi di non godere nulla essendo continuamente immersi nello struggimento di quello che manca, gli indiani invece interpretano l’esistenza come una tappa di un cammino iniziato la notte dei tempi per conseguire una sorta di passaporto spirituale, la vera completezza dell’essenza di noi stessi: per noi la morte non ha senso (gli antichi greci a teatro non potevano neppure rappresentarla), per loro è un semplice passaggio compiuto chissà quante altre volte. Per noi o le cose succedono adesso o mai più, per loro questo è un discorso che non ha senso: questa, secondo me, è la base di quello che veramente ci distingue da loro, da qui discende anche la divergente concezione della vita.
Proseguiamo il viaggio per Calcutta, in treno. Giunti in stazione dopo un allucinante tragitto in tuc-tuc, affumicati letteralmente di nero smog, abbandoniamo gli zaini presso un posto di polizia; saluto un tipo dietro le sbarre che contraccambia. Due grossi topi girano per la stanza salendo anche sui piedi delle guardie indifferenti; m’affaccio sui binari dove è tutto un brulicare incredibile di centinaia di grossi “topazzi”. Un tipo si stupisce della nostra meraviglia asserendo che è tutto normale, infatti anche “Ganesh” (una simpatica figura mitologica col corpo umano e la testa di elefante) ha un topo come veicolo. Andiamo bene! Arriva il treno: guardando tra le inferriate delle carrozze si scorgono tre strati d’indiani sovrapposti e pazienti, scendono a fiumi per comprare qualcosa dai baracchini fumanti d’intrugli nauseabondi, poi risalgono, non ci sta più uno spillo, un fetore che è una presenza. Ridiamo nervosamente: ”Beh, questa è la fine, non potremo mai farcela, non entreremo mai lì dentro con bagagli!” Invece abbiamo prenotato le cuccette in prima classe che si rivelano ottime.
Calcutta me l’aspettavo molto peggio; se si esclude quella zona che si è guadagnata la denominazione di “città della gioia”, è caotica, c’è molto smog, ma non ci sono animali per strada, è abbastanza pulita. In un ampio centro si trovano palazzi e chiese in stile inglese: che bello entrare finalmente, dopo tanto tempo, nella chiesa di St.Paul immersa in un ordinatissimo e pulitissimo giardino, coi sandali, senza nessuno che ti assale, nella consueta quiete propizia alla meditazione e alla tranquillità mentre una bambina suona l’organo nel silenzio di imponenti scranni lignei intarsiati!
Visitiamo la tomba di Madre Teresa, alla cui fondazione tutti lasciamo quel poco che possiamo; ci affacciamo anche sulla soglia dell’ospedale che forse ancor meglio dell’orfanotrofio ricorda l’opera di questa minuscola donnina. Qui volontari di tutto il mondo assistono vecchi macilenti, tutti rigorosamente in verde, in un’ordinata pulizia; strappati alle strade, pur nell’approssimarsi della morte, essi ritrovano nella nuova luce del volto la dignità umana di persone, così spesso bistrattata nei meandri di una vita troppo miserevole. Non è poco, se si considera che quasi prospiciente all’ospedale si trova il tempio della dea Kalì, dove ogni giorno viene sgozzata una pecora come offerta sacrificale.
La mattina dopo, recandoci all’aeroporto prima dell’alba per trasferirci a Bombay, è impressionante vedere quante persone dormono per strada. Anche Bombay me l’aspettavo diversa, è una bella città che si snoda con palazzi moderni e imponenti su una lunga fascia di costa dove si avverte molto l’influenza dello stile di vita occidentale, perciò ci si sente già con un piede a casa. Bellissima l’università in stile inglese e bella la visita all’isola degli elefanti dove si trovano enormi statue buddiste scolpite nelle grotte.
Il viaggio è finito, passiamo l’ultima notte all’aeroporto di Bombay buttati da qualche parte, cercando inutilmente di dormire in mezzo a frotte di arabi che si muovono all’unisono nell’attesa di imbarcarsi. Quando finalmente lo schermo del computer di bordo ci mostra che stiamo sorvolando la nostra magnifica Italia e si sente scorrere sotto le ali fiumi di buon vino, torrenti di pizza e tutte quelle altre cose sensazionali entro le quali viviamo senza vederle più, la gioia del ritorno è più intensa di qualsiasi altro viaggio mai fatto in precedenza, ma c’è anche un fortissimo desiderio nuovo di guardare le cose per quello che sono, che il problema non può essere la fila al semaforo o i soldi che non abbiamo, le cose che non possiamo accantonare; ciò che forse importa è lavorare su noi stessi, avendo nel cuore il sorriso sereno e disinteressato di chi forse non ha da mangiare ma possiede una saggezza atavica che non è raggiungibile attraverso il sentiero tracciato dalla nostra cultura.




Il "viaggio dei Viaggi",
Mi venne a prendere mia zia in stazione, a Bologna, e non mi riconobbe.
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Edited by julius6 - 6/12/2008, 23:26
 
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The Virtus King
view post Posted on 6/12/2008, 16:12




Però...
 
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view post Posted on 6/12/2008, 16:53

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Bellissimo racconto Julius. E' un viaggio che mi ha sempre affascinato ma dopo essere stato in Africa (Kenya, quindi neanche troppo degradato...) ed aver visto la miseria ho rinunciato perchè mi hanno riferito che il Sud dell'India è molto peggio....
 
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view post Posted on 6/12/2008, 19:18
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called for travelling

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grandissimo julius!!!!!
complimenti per il viaggio e per come l'hai descritto.
spero di leggere presto altri tuoi resoconti del genere.

io invece del viaggio non scrivo, ci ho anche provato, da dopo qualche giorno sistematicamente desisto. preferisco scattare fotografie, che al ritorno mi ravvivano la memoria anche diversi anni dopo il viaggio.
stimolato dal tuo racconto ne allego qualcuna, scattata in Tunisia nel'92.

deserto del Sahara (nei pressi di Douz)
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abitazione troglodita a Matmata
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il lago salato di Chott El Jerid
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view post Posted on 8/12/2008, 09:35

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Hai scattato qualche foto nel sito dove hanno girato numerosissime scene di Guerre Stellari?
 
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view post Posted on 8/12/2008, 20:28
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Matmata, appunto.
 
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